Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Paolo Poli incontra Pascoli «Vi spiego perché è grande»

Fonte: La Nuova Sardegna
7 gennaio 2014


 
L’attore toscano nei prossimi giorni sarà in tour in Sardegna con “Aquiloni” Da domani a domenica a Cagliari, il 14 e il 15 a Sassari e infine, il 16, ad Arzachena 
 
 
 
 
 

di Roberta Sanna 

 

CAGLIARI Raggiungiamo Paolo Poli al telefono, in teatro a Sanremo, per sapere cosa mostrerà di Giovanni Pascoli in “Aquiloni”, lo spettacolo che lo porterà in Sardegna da domani (al Massimo di Cagliari sino a domenica, il 14 e 15 al Comunale di Sassari, il 16 ad Arzachena). «Pascoli è stato il primo poeta che ho conosciuto da bambino. Allora ho detto: vediamo che effetto mi fa in vecchiaia», dice. E scopre così «un ragguardevole poeta, pluringuista. Lui che era romagnolo si è impossessato dei dialetti della Lucchesia». E oltre Myricae, raccolta elogiata da Croce, riscopre i Primi poemetti, «in cui fa un elogio vivissimo dei campi, raccontando ciò che vedeva dell’Italia ancora agricola - che conoscevo poco e male perché durante la dittatura ci facevano sentire più che altro le cose magniloquenti, di guerra e politica. Di campagna meno, anche perché Mussolini se ne era impossessato e si presentava a torso nudo alla battaglia del grano». Si scoprono così alcune primizie, come l’uso delle onomatopee degli animali (nel 1897, ben prima di quelle belliche di Marinetti e del Futurismo). «Con le voci degli animali è stato spiritoso, così come con il poemetto che racconta, anche questa una primizia, degli emigranti che tornavano dall’America parlando il “broccolino”, un italiano storpiato dall’inglese.» A “Italy – Sacro all’Italia raminga” è dedicato un gustoso quadro dello spettacolo, un altro a Tripoli e all’impresa di Libia. «Pascoli scrisse un elogio di questa guerra orribile - nella quale abbiamo il primato di aver usato l’aereo come arma bellica - che cominciava così: La grande proletaria si è mossa.

Cantavano Tripoli bel suol d’amore e non sapevano che c’era il petrolio sotto. Pensavano invece di portarci le pecore, per l’allevamento». Ricco di romanze da salotto e motivi da operetta, e curiosamente, di canzoni messicane, «perché il fratello dell’imperatore d’Austria, Massimiliano, fu mandato a far l’imperatore del Messico e dopo tre anni lo fucilarono come ci racconta il quadro di Edouard Manet, e in Italia il fatto fu molto sentito»- lo spettacolo evoca il clima della Bell’Epoque. Lungi dal fare una biografia pascoliana. «La tragedia familiare non l’ho messa perché non se ne poteva più, non ho messo la cavallina, la rondine che torna al nido. La sorella Mariù la metto una sola volta e malvolentieri. Perché è quella che lo ha sputtanato. Lui è morto e lei ha continuato a fare antologie per i più piccini». Anche la scuola ha fatto i suoi danni nei confronti del poeta. «Ci raccontavano la morte del padre quasi fosse un giallo, con la cavalla che nitrisce per dire il nome dell’assassino. Preferisco Agatha Christie, allora». Paolo Poli non ama le definizioni, inutile proporgliele. «Io non definisco nulla, lavoro e basta. Sulla tomba voglio solo il nome e le date di nascita e di morte. Un tempo si diceva: strappato all’affetto dei suoi cari. Gli ideali di Mazzini, Dio Patria e Famiglia, hanno subito fieri colpi. Da allora il mondo è cambiato». Sui diversi libri recentemente a lui dedicati (“Alfabeto Poli” raccolta di interviste di Einaudi, “Sempre fiori mai un fioraio”, intervista di Pino Strabioli, e “Paolo Poli e Lele Luzzati. Il Novecento è il secolo nostro” ), è addirittura cinico. «Preparano in anticipo “il coccodrillo”. Perché quest’anno faccio gli ottantacinque… sicché avanti un altro, sotto a chi tocca, diceva Zeffirelli». Sul lungo sodalizio con Lele Luzzati, grande scenografo scomparso, ha parole soavi e un sapido aneddoto. «Il sodalizio continua perché lui, pur essendo genovese ed ebreo, era molto generoso. M’ha riempito di disegni, pupazzetti. Adorabile creatura, buono gentile spiritoso allegro. Mi diceva: vuoi un salotto del Settecento? Eccolo, bell’e fatto! E montava fotocopie a suo modo. Ma mi hai fatto la prefettura di Firenze! Allora ti ci metto delle statue che pisciano… vedrai che nessuno la riconosce. Difatti a Firenze lo spiegai io al pubblico». E parlando della sua città, come non chiedere un commento sul concittadino Matteo Renzi? «A vederlo così è un bel ragazzo. La televisione però non imbellisce: ha delle righe orizzontali che allargano. Visto di dietro gli si vede la coppa del collo, che non c’è, il culone… Mentre invece io l’ho incontrato, è belloccio, e poi si presenta brillante: “Come va?” e subito stringe la mano. Del resto...parla troppo secondo me». E non è il solo a farlo. «Siamo in un’epoca di parlamenti, chiacchiere vane. Il Papa una volta parlava solo a Natale e a Pasqua, ora tutti i giorni ha da dire anche lui. Parla semplicemente, non usa il latino urbi et orbi, parla come una persona normale e quindi piace. Perché andare in giù e più facile che andare in su». Insomma i personaggi pubblici non lo riguardano. «Io ho quelli della letteratura. Dopo avere letto il Morgante maggiore di Pulci, l’Ariosto o il Tasso, già sto bene per un pezzo. E poi Dante Alighieri, che non è appannaggio di Benigni, ma è di tutti». Si è scandalizzato per la traduzione di Busi del Decamerone in lingua moderna. «Come si permette di toccare un classico che si legge così volentieri con quella bella lingua luminosa e numinosa?». Ha un commento anche su Grazia Deledda, arrivando nella sua isola. «La povera Deledda nessun se la ricorda, invece era garbata. In un epoca, specialmente in pittura, di verismo, lei ha fatto la sua parte. E ha avuto anche un bel riconoscimento, col Nobel” Solo classici, dunque? La risposta è fulminea. “Meglio Ludovico Ariosto di Fabio Volo. Vola di più l’Ariosto, secondo me».