Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Un Gomorra ogni anno» Liliana Cavani e il cinema

Fonte: L'Unione Sarda
15 dicembre 2008

La pizza fredda divisa a metà con Rourke, le rose di Bogarde, i duelli nel Pd e gli scontri con il Psdi

Opinioni, entusiasmi, ricordi e delusioni La regista di “Il portiere di notte” incontra Cagliari

Liliana Cavani si è avvalsa della facoltà di rispondere, a lungo e con garbo, al profluvio di domande che Cagliari le ha rovesciato addosso giovedì sera, nella serata organizzata dall'associazione culturale l'Alambicco. Prima il giornalista Sergio Naitza e il pubblico del Cineworld - dove la regista di “Il portiere di notte” e “Galileo” ma anche delle fiction Rai su De Gasperi ed Einstein è stata premiata da Comune di Cagliari e Regione - e poi l'Unione, le hanno chiesto di raccontare il grande, grandissimo schermo della sua esperienza artistica. Quella che segue è inevitabilmente una sintesi striminzita di alcune delle sue considerazioni, a cominciare da quelle sul film simbolo del nuovo cinema italiano.
«Di “Gomorra” ce ne vorrebbe uno all'anno, altroché. Non sopporto quelli che dicono “Eh ma con un film così noi italiani ci facciamo del male da soli”. Questa storia del ci facciamo del male da soli la dicevano già quando girai uno dei miei primi documentari. Volevo occuparmi del fenomeno dell'inurbamento, dei meridionali che si spostavano a Torino per trovare lavoro, e andai al Sud per vedere da dove partivano, qual era la realtà da cui si allontanavano. Già allora, e sto parlando del '65, era evidentemente tutto in mano alle cosche, era tutto determinato dal rapporto tra la criminalità e la politica, o meglio tra la criminalità e i politici. Connubi a sfondo immobiliare, prevalentemente. Quando penso al Meridione e a tutti i soldi che sono stati investiti per aiutarlo a risollevarsi e invece sono finiti in mano ai furbastri, mi dico che lo Stato avrebbe speso meglio e meno dando direttamente un sussidio a ciascun cittadino: almeno il denaro sarebbe arrivato ai destinatari, li avrebbe aiutati a mandare i figli a scuola, non sarebbe andato nelle tasche sbagliate».
Il documentario servì?
«Per alcuni versi sì: ricordo che dopo averlo visto Paolo VI regalò una casa a una ragazza madre che stava per essere messa per strada con i figlioletti. Ma devo aggiungere che la terza e la quarta parte subirono tagli importanti».
È problematico lavorare per la Rai?
«Non ho subito invadenze né quando ho fatto “De Gasperi” né per “Einstein”, ma devo dire che mi trovai bene anche inizialmente, nella prima Rai, quando avevo come interlocutori i cattolici progressisti. Poi arrivò il primo centrosinistra, e con il centrosinistra arrivarono i socialdemocratici, totalmente restii a qualunque analisi che andasse un minimo in profondità».
Lei non ama autoritrarsi perché, dice, “potrei rappresentarmi come una simpatica e magari in realtà non lo sono”. Chi è un simpatico doc, secondo lei?
«Di sicuro Vincenzo Amato, il mio “Einstein”: è così anche nella vita reale, una persona molto serena, molto disponibile. Tra l'altro è anche un ottimo scultore. E poi anche Mastroianni. Lo ricordo sul set di “Oltre la porta”, in Marocco, quando non si allontanava un attimo dalla troupe: Marcello non mangiava marocchino, proprio non gli piaceva, e allora stava con i tecnici che organizzavano una spaghettata dopo l'altra. Ma ho un ricordo molto bello anche di Dirk Bogarde, con le sue cento sigarette al giorno e il cardigan di lana con le tasche slabbrate sempre indosso. Nel cast di “Il portiere di notte” avevo chiamato anche Isa Miranda, che dopo un passato di grandi successi attraversava un periodo problematico, ricordo che aveva dovuto vendere la casa e viveva in un garage. Era stata la nostra Marlene Dietrich ma quando la incontrai mi parve una vecchia sola, abbandonata. Bene, quando arrivò sul set trovò in camerino un enorme fascio di rose: glielo aveva fatto portare Bogarde, in segno di gratitudine per i film che Isa aveva interpretato. E poi Mickey Rourke. Lo incontrai la prima volta nel New Jersey, dove stava girando. Lo aspettai fino alle dieci di sera, poi arrivò e ci dividemmo una pizza seduti sulla moquette del motel sull'Atlantico dove dormiva in quei giorni. D'un tratto, mentre ravanava in un borsone alla ricerca di non so che, mi domandò: “Ma per somigliare al San Francesco che vuoi da me, che cosa devo fare?”. Senti un po', gli dissi, dormi in questo albergo, hai mangiato mezza pizza seduto per terra, ti porti appresso una sacca che in confronto quella di Francesco era di sicuro più ordinata… Non cambiare di una virgola, vai benissimo così».
Lei ha trattato spesso l'ambiguità del male, a volte scegliendo come spunto narrativo il Terzo Reich. Le è piaciuto “Le Benevole” di Littell?
«L'idea del nazismo visto e raccontato da una SS era interessante, ma dopo qualche pagina l'ho lasciato stare: quelle cose le sapevo già. D'altronde se i nazisti fossero stati una banda di venti-trenta pazzi sarebbe bastato un ospedale psichiatrico per farla finita. Se li hanno seguiti in milioni evidentemente il problema è più profondo».
Per lei la politica è ancora “in cima alla lista delle preoccupazioni”?
«Sono una dei Tredici che hanno scritto il documento fondativo del Partito Democratico, e devo dire che non è stata un'esperienza gradevole. Mi ero illusa insieme a qualcun altro di avere davanti un foglio bianco: abbiamo scoperto presto che c'era chi voleva indirizzare le cose in un modo piuttosto che in un altro. Poi c'è stata la nascita del governo ombra, un'idea che mi ha lasciata basita per la sua inutilità. E ora, ancora una volta, questi duelli tra Veltroni e D'Alema: forse non leggono i giornali, altrimenti proverebbero vergogna».
CELESTINO TABASSO

14/12/2008