Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

In viaggio con Pino Melis nell’arte decorativa del ’900

Fonte: La Nuova Sardegna
10 dicembre 2008

MERCOLEDÌ, 10 DICEMBRE 2008

Pagina 41 - Cultura e Spettacoli





LA MOSTRA A Roma sino all’11 gennaio

GIULIANA ALTEA

La mostra Il mondo di Pino Melis, allestita a Roma, alla Casina delle Civette, dove si può visitare sino all’11 gennaio, promette di restituire visibilità nazionale a un artista tanto raffinato quanto schivo, la cui notorietà era finora circoscritta a una piccola cerchia di specialisti e amatori. Promossa dal Gremio dei Sardi, la rassegna ripropone il nucleo di opere di Pino Melis già presentate l’anno scorso al Teatro Civico di Castello di Cagliari, integrata da una selezione di lavori dei fratelli Melkiorre, Federico e Olimpia. Da Bosa, dove erano nati a cavallo tra Otto e Novecento, i fratelli Melis avevano spiccato il volo, sospinti in vari lidi dalle esigenze delle rispettive carriere: a Roma e a Tripoli Melkiorre, il maggiore, pittore e decoratore allievo di Duilio Cambellotti; a Cagliari, Roma e Urbania il ceramista Federico, ancora a Roma Pino; solo Olimpia, fondatrice di un laboratorio di filet artistici, era rimasta nel luogo d’origine. Se si eccettua Olimpia (penalizzata dall’essere donna, e la cui attività non sembra offrire sufficiente materiale per una ricostruzione storica), fino a poc’anzi l’unico a non aver avuto l’onore di una riscoperta era Pino. Eppure le sue opere non hanno certo niente da invidiare a quelle dei fratelli; semmai spiccano per grazia e originalità. L’immagine vi si snoda sul filo di una fantasia tra il giapponese e il goticheggiante, che si compiace dell’infinitamente piccolo, dell’elitra di un insetto o della nervatura di una foglia, e che nei minuscoli recessi della natura sa scoprire mondi insospettati. Nelle tavole illustrate, ma soprattutto negli originali a tempera, inchiostri e acquerelli, di cui la mostra presenta una bella serie, il segno di esasperata finezza si combina al gusto del colore tenue, snervato, percorso da iridescenze madreperlacee. Sono lavori dotati di un fortissimo richiamo tattile; come fossero stoffe preziose, invitano al tocco (e resistono invece in molti casi alla riproduzione fotografica, che tende a immiserirli). Non a caso, l’artista ha realizzato anche figurini di moda, fazzoletti decorati a stencil e spille ornate da miniature e da ricami.
Ultimo di otto figli e con ben tre fratelli artisti, nato in piccolo paese e in una regione dove di artisti all’epoca quasi non ce n’erano, vissuto in una grande città, arrivato all’arte da autodidatta e morto quasi ignorato nonostante un’intensa attività durata più di sessant’anni, si può dire che Pino Melis abbia avuto una vicenda capace di incuriosire. Se a questi (scarni) dati biografici aggiungiamo la seduzione della sua opera, fragile ed elegante fino allo spasimo, il tutto si presta a comporre un ritratto quanto mai intrigante. Gli autori del catalogo non paiono essersi sottratti al suo charme: Antonio Faeti ne nota, in una foto che lo mostra quattordicenne, “l’incredibile distinzione da piccolo principe”, leggendovi in filigrana già una dichiarazione di poetica, o per lo meno la promessa di quel magistero di stile che lo avrebbe condotto in breve a firmare tavole e copertine di un prestigioso settimanale per bambini come il Giornalino della Domenica; Antonello Cuccu vede nella sua origine “sulle rive di un fiume prossimo al mare fra pescatori, contadini e pastori” una predestinazione, di nuovo, a un percorso nelle arti applicate. Predestinazioni a parte, qualcosa del fascino esercitato dalla figura di Pino Melis deriva dal fatto che di lui sappiamo nonostante tutto ben poco. Se le tappe del suo percorso di artista erano note da tempo (l’esordio a quattordici anni con dei figurini di moda esposti a Sassari, la partecipazione nel 1917 alla Mostra Sarda di Milano organizzata da Giuseppe Biasi; la collaborazione alla Rivista Sarda diretta da Melkiorre e al Giornalino della Domenica di Vamba, e di lì il tuffo nella carriera di illustratore di testate come Cordelia, La Donna, Il Balilla, oltre che di svariati volumi, le rare partecipazioni a eventi espositivi in Sardegna e nella Penisola, ecc.), e questa mostra contribuisce a meglio specificarle nei particolari, di ciò che è cultura non meramente visiva, idee, amicizie, frequentazioni, rapporti, vicende personali, niente trapela. S’intuiscono uno spirito umbratile, vagamente malinconico, rapporti con l’altro sesso non semplicissimi, a giudicare dall’apparente assenza di relazioni sentimentali fino al tardivo matrimonio, nel 1952, con la pittrice Maria Letizia Giuliani, e una fervente fede cattolica, rivelata, oltre che dai sobri accenni contenuti nella cronologia del catalogo, dai titoli di alcune opere (viene l’acquolina in bocca al pensiero di un La martire delle Ferriere. Maria Goretti, patrona della gioventù, con le sue illustrazioni!).
Per tutto il resto, l’artista continua a rimanere circondato dall’ostinato riserbo che lo aveva caratterizzato in vita. A parlare sono i suoi lavori, gentili, aggraziati, eterei e evanescenti, quasi dipinti con ali di farfalla o squame di pesce, tesi sul filo esile ma resistentissimo della decorazione.