Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Michel Ocelot, un geniale bambino di settant’anni

Fonte: La Nuova Sardegna
7 ottobre 2013


 
Incontro all’ExMà con uno dei grandi maestri del cinema di animazione «Vede questi bimbi? Il mondo è complicato, ma finché ci sono loro c’è speranza» 
 
 
 
 
 



di Sabrina Zedda

Uno dei più bei complimenti che gli abbiano mai fatto è che con i suoi film non si va a fare pipì. C’è una bella differenza con le pellicole d’animazione «alla moda», come le chiama lui, quelle americane dove, gli è stato raccontato, i bambini corrono più volte al bagno. Basta sentirsi raccontare questo piccolo aneddoto per capire Michel Ocelot, uno dei maestri mondiali del cinema d’animazione, ospite nei giorni scorsi dell’ottava edizione del festival di letteratura per ragazzi Tuttestorie, in corso sino a ieri. Settant’anni alla fine del mese e uno sguardo curioso sempre pronto a sorprendersi, durante il festival il regista dell’acclamato “Kirikù e la strega Karabà”, basato su una leggenda africana, ha incontrato il suo pubblico in occasione della proiezione del film “Azur e Asmar” , che mette in scena la vicenda di un'amicizia elettiva tra un principe azzurro e un esotico Aladino. E il giorno prima, ha illustrato i segreti del mestiere in un laboratorio che ha visto genitori e figli lavorare gomito a gomito nella preparazione delle silhouette di carta da ritagliare. «Avevo diciotto o vent’anni quando ho capito che questo sarebbe stato il mio lavoro – racconta Ocelot –. Prima sapevo solo che sarei stato un artista e un creatore». D’altronde la sua strada nel cinema d’animazione non si sarebbe potuta aprire prima, spiega il regista, generoso nel dedicarsi agli altri e nel raccontare gli sprazzi di un’esistenza il cui segreto pare sia quello di essere riuscito a mantenere nel cuore la curiosità e l’entusiasmo infantile. «Quand’ero bambino il cinema d’animazione non c’era ancora e in famiglia non avevamo la tv». Ci sono voluti anni di studi, viaggi ed esplorazioni perché si spalancasse la porta della sua carriera, cominciata quasi in sordina e con pochi mezzi: «In quegli anni avevo pochi soldi, ma quel che facevo mi piaceva molto. E mi divertiva anche. All’inizio tagliavo un pezzo di carta e riprendevo tutto con una cinepresa». Un po’ quello che Ocelot a ha fatto anche più tardi (nel 2000) con il film “Principi e principesse”, dove le sagome di carta sono state riprese con una piccola cinepresa svizzera: «E’ stato complicato – racconta con un sorriso –. Eppure il nostro lavoro ha conquistato milioni di spettatori quando nessun altro in quel modo ci sarebbe riuscito». Le nuove tecnologie Ocelot le ha provate per curiosità e, in qualche caso, necessità (nel penultimo lavoro, «Les contes de la nuit», ha usato il 3D) e ne conosce i limiti: «Lavorare all’animazione con il computer richiede tanti lavori e tante specializzazioni _ osserva _ e questo rischia di uccidere la parte artistica del mestiere. In questo senso, dico che siamo schiavi degli Usa». Schiavi degli Usa e schiavi della lingua inglese, sottolinea convinto Ocelot, riferendosi soprattutto all’Italia e alla Francia (vive a Parigi). Già, perché a dire di Ocelot, che il mondo l’ha girato tutto e lo conosce bene, «Italia e Francia non hanno fiducia in sé». Per questo quando fanno cinema inseguono il modello americano. Per questo, soprattutto i bambini italiani, che «sono bellissimi come del resto tutti i bambini del mondo», usano anche tante parole inglesi inutili. «Avete una lingua bellissima: perché molte delle vostre meravigliose parole devono essere sostituite da termini inglesi?». Il fatto, ad esempio, che in italiano un insieme di conoscenze è indicato con la parola know how a Michel Ocelot proprio non va giù: in francese basta dire «savoir faire», perché mai invece gli italiani devono affidarsi alla traduzione inglese? Per Ocelot dietro tutto questo c’è una svalutazione della propria storia e della propria cultura: «Si dice che il cinema è morto. Ma se anche è vero che in Francia non abbiamo più attrici come la Bardot o Alain Delon e in Italia non avete un altro Federico Fellini, questo non significa che sia stato perso tutto». E’ per questo che, non a caso, nell’ultimo film di Ocelot, ancora in fase di lavorazione, una ragazza alla sua affermazione «Parigi è morta» si sente rispondere: «No! Non è morta: ci siamo noi». Per spiegarlo ancora meglio, il regista si guarda attorno, e sorride con aria furba a tutti quei bambini accorsi al festival che lo riconoscono e che oltre a dirgli «ciao» gli accennano a qualche giochetto, che tanto lo sanno lui saprà capire: «La speranza non è morta. Loro ci sono», dice convinto. E se da italiani non riusciamo a esserne convinti, lui, una volta in più sgombera il campo dai dubbi: «L’Italia ha fatto tutto bene. Non si può dire che ha fatto bene solo nel passato, non esiste dirlo. Questo è un po’ un errore che fa anche la Francia: ha avuto uno studioso eccezionale come Hernest Renan, che ha studiato il Vangelo come fosse un testo storico in anni in cui non lo faceva nessuno, e ora è dimenticato da tutti». Dai cartoons alla storia, dall’arte all’architettura, sino al gioco. Nel cuore bambino di questo favoloso settantenne non c’è argomento o attività per cui non ci sia posto: «Faccio tutto: scrivo, disegno, canto ballo, mi travesto. E tratto tutti gli argomenti che mi interessano. Sono come un ghiottone, se entro in una pasticceria assaggio tutto. D’altronde, ne ho diritto. No?».