Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Cagliari, la città del no»

Fonte: L'Unione Sarda
20 settembre 2012



Pasquale Mistretta, ex rettore, illustre urbanista e mancato sindaco
parla della grave crisi e del futuro dell'Isola con un occhio al capoluogo

di Carlo Figari
La crisi del Sulcis e di tutta la Sardegna. Una mentalità, quella dei sardi, che ci impedisce di guardare oltre. Un futuro pieno di incognite, che fa paura, ma che può essere affrontato con nuove speranze. E poi Cagliari, eterna incompiuta in attesa di diventare quella capitale del Mediterraneo che ancora non è. Pasquale Mistretta è un fiume in piena quando parla di Sardegna, dei sardi e della sua città. Ex rettore "magnifico" lui che è stato a capo dell'ateneo cittadino per quasi vent'anni (1991-2009). Urbanista di prestigio, ha lavorato a molti piani di sviluppo dell'Isola. Politico di razza con un passato mai rinnegato di socialista del Garofano. E sindaco mancato: «Non mi hanno voluto», scherza. Alla soglia degli ottant'anni è ben lontano dal mettersi in pigiama a leggere L'Unione Sarda. L'ultimo anno lo ha passato a scrivere due volumoni che raccolgono mezzo secolo di saggi, articoli e interventi di ogni genere. «È la mia storia», dice. Ma è anche la storia della Sardegna ai raggi ics.
Professore, oggi siamo in ginocchio. Le statistiche dicono che stiamo precipitando.
«Alcuni dati sono frutto della situazione internazionale in atto da almeno 2- 3 anni che si è accentuata in quest'ultimo 2012».
Anche il turismo va giù.
«I turisti che venivano in Sardegna oggi hanno una gamma di scelte maggiore, grazie ai low cost. Poi hanno bisogno di risparmiare sulla durata del soggiorno. Rispetto al passato si sono accorciati i tempi».
I trasporti ci hanno dato la mazzata finale.
«Il caro trasporti non si è modificato granché, perché è vero che è aumentato il costo della vita, ma anche il benessere generale. Per cui mentre prima non viaggiava nessuno e non ci si accorgeva del costo, oggi viaggiamo tutti e quindi ce ne accorgiamo. Soprattutto per i traghetti».
Il problema però esiste.
«Qui in Sardegna dobbiamo distinguere due modi di leggere il problema: il primo è l'onestà dei dati e l'onestà di memoria storica. Cosa che spesso mettiamo in discussione. La seconda è una lettura di comodo che di solito può essere strumentalizzata per ottenere risultati di compassione e di rivendicazione che poi di fatto non siamo in grado di risolvere».
Che vuol dire?
«La domanda che mi pongo sempre è la contraddizione che esiste tra la voglia di indipendenza diffusa anche tra persone che stimo per onestà intellettuale, e la sudditanza economica di cui non possiamo liberarci nei confronti di Roma. Chiediamo continuamente a Roma risorse dovute di soldi, interventi per energia e per occupazione, per salvaguardare alcune realtà che non hanno senso di esistere».
Battiamo i pugni perché Roma non ci ascolta.
«Supponiamo che in un tavolo romano si decida di dare alla Sardegna tutto quello che chiede in soldi, ammettiamo che ci diano X miliardi. Primo: cosa ne facciamo? Secondo: come li spendiamo e quando li spendiamo? Terzo: servono per riconvertire il sistema che comunque ha bisogno di tempi per la riconversione?».
Insomma, con Roma dovremo sempre confrontarci.
«Dobbiamo dimenticarci una volta per tutte dell'indipendenza perché non possiamo essere indipendenti in quanto non abbiamo massa critica, risorse e interlocuzione internazionale. Penso alle macro aree che sono in forte competizione mondiale perché hanno le Borse e i mercati come Singapore, Hong Kong, Abu Dhabi. Ma noi con chi ci rapportiamo?»
Lo dica lei.
«L'unica possibilità è dialogare con l'Europa saltando l'Italia, facendo riferimento alle cosiddette realtà politiche minori come la Scozia o le Baleari. Bisogna valutare gli scenari possibili in cui potremmo inserirci. Difficile inventarsene uno nuovo».
Nel panorama continentale oggi contiamo poco o niente.
«Quale forza d'urto può rappresentare un milione e mezzo di abitanti in crisi di sistema e di identità, a prescindere dai balli sardi? Con quali credenziali ci presentiamo come risorsa credibile? Per questo sono favorevole a vendere a un emiro, magari mettendoci su la bandiera con i quattro mori».
Il Sulcis sta pagando questa situazione.
«Si doveva suonare solo la sirena di attenzione quando qualcuno ha inventato i progetti attuali. Si sono illusi molti giovani assunti 3- 4 anni fa. Oggi è tardi».
Il sogno industriale, nato negli anni Settanta, è definitivamente tramontato?
«La scelta della petrolchimica e della grande industria è stata dovuta perché senza quegli interventi-macro non si sarebbero affrontati i problemi della disoccupazione e del superamento dell'agropastorizia. La povertà produceva banditismo. Di fronte a questo scarto di memoria non possiamo dire che la colpa fu di Roma. Ciò ha funzionato sino a quando la petrolchimica è andata in crisi e la globalizzazione ha portato le industrie in zone dove la mano d'opera e l'inquinamento costano zero, l'energia e i trasporti costano sino a un certo punto».
I primi nemici dei sardi sono i sardi stessi. Che ne pensa?
«Lo ha scritto bene Massimo Crivelli su questo giornale mettendo il dito sulle verità di chi siamo, di come piangiamo, di come abbiamo fatto finta di non capire che il mondo stava cambiando. E aggiungo io che noi dovevamo cambiare aiutando il mondo sardo a cambiare insieme allo stato italiano e all'Europa. Invece abbiamo fatto di tutto per allargare la forbice con l'Italia e l'Europa che ci dicevano certe cose e noi che continuavamo a fare resistenza passiva».
Di chi la colpa?
«La classe politica siamo noi. Il responsabile è la società sarda, la mentalità del tutto è dovuto, di lavorare sotto il condominio, di non spendere per le cose dovute. È una mentalità che fa parte della mentalità sarda e di cui il politico è l'espressione. Poi ci mettiamo gli orticelli elettorali».
Esiste una via d'uscita?
«Credo esista una via da percorrere: la società sarda si deve rendere conto che il quadro è assolutamente diverso e deve cambiare la mentalità. È ovvio che la leadership politica farà parte di questa riconversione mentale. Secondo: intervenire con verità e certezze sull'esistente, sul macro industriale e sugli altri settori importanti cominciando dall'agricoltura».
Cagliari, la sua città. La nuova amministrazione sta lavorando bene?
«Non mi piace il comportamento fazioso di alcuni consiglieri comunali per il loro stizzoso rivendicazionismo. Per ora non sono in grado di valutare il lavoro di Zedda».
Il caso anfiteatro...
«Quando l'ex sindaco Delogu dodici anni fa avviò la messa in posa del tavolato si era riproposto di smontare a ottobre e di rimettere tutto l'anno successivo. Poi si è capito che costava troppo e che i cagliaritani si abituano a tutto. Sono passati gli anni e ora è arrivato l'ordine della Soprintendenza. La scelta non è di Zedda».
La telenovela dello stadio: una vergogna per tutti.
«So che Cellino deve un sacco di soldi al Comune perché c'è una convenzione. Si sono impegnati ingegneri e presentati progetti, dopodiché non se n'è fatto nulla. Questa vicenda fa parte di una storia di chi ha giocato sulla stadio. Anche i miei amici ex sindaci hanno le loro responsabilità».
Che fare di Sant'Elia?
«Lo stadio potrebbe funzionare anche diviso in due con setti mobili come avviene in altri impianti del mondo. Una parte si può coprire per fare dei gusci che possano ospitare orchestre e spettacoli. Non c'è dubbio, si deve salvare».
Parliamo del Poetto.
«Un'altra cosa ereditata. C'è chi deve ancora rispondere alla Corte dei conti per i danni causati dal disastroso ripascimento. Le colpe non sono solo del Comune, ma della Capitaneria e della Regione che del Poetto hanno fatto una cosa su cui non si decide mai. La triste realtà è che Cagliari e la città del no».
Chiudiamo con l'Università. Con i test si sta cancellando il diritto allo studio.
«Non è vero perché se si vuole fare una selezione di merito ci vuole pure un criterio per quanto discutibile e migliorabile. Preferirei per questione di stile non aggiungere altro sul nostro ateneo, non sarebbe corretto. Posso solo dire che sta subendo le grandi trasformazioni della legge Gelmini che io vedo in positivo».