Rassegna Stampa

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Gigi Riva, lo scudetto, la Uefa, la Juve in B. Storia di un tifoso doc: "Il Cagliari mi aiuta a rest

Fonte: web Castedduonline.it
14 agosto 2012

 

13/08/2012 17:08di Agostino Trombetta

Sono nato a Foggia il 19 gennaio 1959 da genitori entrambi garganici e non ho nessun ascendente sardo, almeno apparentemente. Già perché le cose, in realtà andarono diversamente. Io sarei dovuto nascere in qualche paese della Sardegna, che sento la mia Terra, ma purtroppo la cicogna che mi trasportava, un po’ per la vecchiaia ed un po’ per il mio peso, perse l’orientamento e mi portò da tutt’altra parte. Non che io abbia qualcosa contro la terra in cui sono casualmente nato e dove ho vissuto bene e vivo bene. Comunque ci volle poco tempo per rimediare all’errore del grosso volatile perché nei primi mesi del 1969, quando avevo 10 anni ed ero circondato da juventini, milanisti ed interisti, rimasi folgorato da un calciatore, che mi rese felice,  dapprima con i suoi meravigliosi gol che si abbattevano puntualmente su tutte le squadre avversarie, e poi con il suo gesto più meraviglioso, quello di rifiutare una maglia a strisce e poco colorata, con tutto il conseguente carico di soldoni che questa gli avrebbe portato. Fu così che girai ad un amico la nuovissima divisa dell’Inter che mio papà mi aveva regalato e cominciai a vivere con il rosso e il blu nella testa e nel cuore.

Gigi Riva, che solo dopo, incontrando i tifosi sardi capii che in realtà si chiamava GIGGIRRIVA e la sua squadra fecero breccia nel mio cuore e la città di Cagliari, con lo scudetto che arrivò solo un anno dopo, divenne  per me il luogo dove tutto è possibile, il paradiso dove il piccolo può alzare la voce col potente, dove un gruppo di giovani scartati dalle grandi squadre potevano prendersi la rivincita e ridicolizzare nel gioco e nei risultati chi li aveva mandati via. Da sempre amo chi soffia contro gli imperi, chi si mette in testa la meravigliosa idea di rovesciare i pronostici e le graduatorie, nello sport e nella vita.

Forse amo il Cagliari (solo dopo ho imparato che si chiama Casteddu) perché in fondo, quando andavo a vedere i film western tifavo per gli indiani. Fatto sta che da ben 43 anni non c’è giorno che non pensi alla mia squadra del cuore e che non soffra e gioisca con lei. Poi in fondo essere abituati a soffrire rende ancor più piacevole e più gioioso il momento della vittoria. Successivamente il grande Gigi aveva lasciato il calcio, anche se nella mia mente da bambino doveva essere una specie di Highlander, un eroe immortale. Ma ormai il Cagliari era entrato nel punto più remoto di ogni cellula del mio corpo che non era più, ahimè, quello di un bambino.

Sono invecchiato ma ho scoperto che intorno a me erano in tanti ad essere stati contagiati dalla mia stessa malattia. All’improvviso mi sono accorto che non ero solo e lì nasceva il Cagliari Club San Severo, città del tavoliere delle Puglie dove mi ero trasferito dal Gargano della mia infanzia. Ero diventato medico e stavo prendendo la specializzazione in chirurgia generale quando giravo con i miei amici Massimo, Giuseppe, Nando e Lorenzo per i campi con lo striscione del gruppo, sia che si giocasse a san Siro, sia che si fosse a Francavilla, Campobasso o Caserta.

Poi tifare il Cagliari ha un altro vantaggio, oltre a quello di sentirsi davvero onesti e puliti. Il vantaggio di poter essere a stretto contatto con i protagonisti che vestono i tuoi colori. Campioni come Zola, Francescoli, Abe, Herrera, Bisoli e tanti altri erano davvero degli amici o comunque delle persone precisamente come noi quando non erano in campo. Era ed è ancora possibile fermarsi a parlare, scherzarci un po’, consolarli o condividerne le gioie da vicino. Immagino ogni tanto i tifosi delle cosiddette grandi che vedono i loro Campioni (?) soltanto da lontano. Insomma nei miei anni in giro con il Cagliari ho conosciuto gente meravigliosa, primo fra tutti il Maestro Tabarez di cui ho un gran ricordo.

Poi venne la Uefa e le trasferte a Mechelen, Torino e Milano. Le partite a Cagliari, alle quali le mangiate di meravigliosi prodotti sardi e dei piatti fantastici della signora Ivana Serra di Quartucciu fanno necessariamente da piacevole contorno. Insomma ho imparato ad amare la squadra, la città, la regione, la gente.

Lavoro da 20 anni in Pronto Soccorso, nell’ospedale fondato da San Pio da Pietrelcina a san Giovanni Rotondo e spesso mi capita di visitare pellegrini sardi che a volte stanno male durante la visita ai luoghi del santo. In quelle occasioni, dopo essermi sincerato delle condizioni cliniche ed aver fatto del mio meglio per prestare le cure al paziente, mi fermo a parlare con loro che stupefatti per aver trovato uno che gli dice qualche parolina in sa limba (sto cercando di imparare ma è dura) e che gli parla del suo profondo amore per il Cagliari e la Sardegna, vanno immediatamente a riferire al gruppo. A volte arriva in pronto soccorso qualche sardo in cerca del “medico del Cagliari” e per i miei infermieri sono oramai il Dottor Trombeddu. Mi ferisce a volte conoscer e dei sardi che tifano squadre del continente. Per me, rossoblu continentale, è qualcosa di inconcepibile.

Il Cagliari mi aiuta a farmi sentire come allora, come quando mi entusiasmavo per lo scudetto. In fondo mi aiuta a restare bambino.
Anche quando qui vicino c’era il Foggia dei miracoli (ma il miracolo fino in fondo lo abbiamo fatto solo noi arrivando al triangolo tricolore), non provavo interesse per i rossoneri e nelle gare Foggia Cagliari ho sempre tifato per la mia vera squadra e forse la mia vera terra.

Il mio sogno, dopo aver visto lo scudetto, la coppa Uefa e la Juve in B, a questo punto è uno solo: che negli anni o decenni che mi restano possa ancora vedere un secondo miracolo rossoblu. E’ vero, col calcio di adesso, è forse impossibile ma “coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte” (E.A. Poe). E io credo di sapere qualcosa di magico