Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Una città che non sa osare

Fonte: L'Unione Sarda
14 giugno 2012

Pensieri e parole di Roberto Palomba, architetto e designer di successo:
«I cagliaritani sono seduti su una pentola d'oro che non sanno sfruttare»
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Ci sono abitudini che svelano, più di ogni proclama, il senso di appartenza a un luogo, a una radice. Tenere, per esempio, nel grasso mazzo di chiavi quella della casa della tua giovinezza, nonostante da tanti anni non ci viva più, nonostante la tua esistenza sia radicalmente cambiata. «Ero già sposato, trasferito a Milano, il lavoro che mi portava e mi porta ancora oggi da una parte all'altra del mondo, eppure la chiave della casa di Cagliari non ho mai voluto separarla dalle altre. Aveva una forma particolare, in fondo raccontava un pezzo di me. Da dove venivo: nel bene e nel male parlava della mia città, dei miei ricordi».
La confessione arriva alla fine della chiacchierata, dopo che Roberto Palomba, 49 anni, architetto e designer di fama internazionale, rivela questo piccolo particolare. Insignificante di primo acchito, invece - a pensarci bene - quasi un segno psicanalitico, un messaggio simbolico. O più semplicemente il piacere di un'abitudine.
Difficile decifrare, anche perché Palomba non nasconde di avere un rapporto ambivalente con la sua città natale. «Non siamo andati molto d'accordo io e Cagliari. Intendiamoci, il problema era mio». Più generale pensa che sia un luogo dalle mille e una potenzialità, ma travolto da un'inerzia che penalizza qualsiasi sviluppo. Lo dice senza giri di parole e con cognizione di causa: il suo brillante curriculum sta a dimostrarlo. Per chi non conoscesse ancora il talento di questo cagliaritano è sufficiente visitare il suo sito (palombaserafini.com) per rendersi conto della genialità: oggetti col tocco dell'originalità, sorprendenti perché slegati dall'omologazione comune.
Con la moglie Ludovica Serafini forma la coppia d'oro del design made in Itay. Hanno uno studio associato, sede a Milano, in un luminoso loft nel cuore dei Navigli, progettano architetture ed esposizioni in tutto il mondo, collaborano e sono art director per alcuni dei marchi più conosciuti dell'industrial design. E in bacheca sono stipati premi internazionali come il Compasso D'Oro, il Red Dot, il Design Plus, il Good Design Award, il German Design Award.
Eppure un figlio così illustre, Cagliari lo snobba. «Una volta ho provato, contattai alcune persone alla Camera di commercio per realizzare una mostra di artigianato a Verona. Percepii un senso di fastidio attorno alla mia proposta e non se ne fece nulla. La girai alla Regione Lazio, ottenendo ottimi risultati».
Anche da piccolo si sentiva “straniero” in città?
«Ero un bambino particolare. Vivevo nel quartiere degradato di San Michele, dove ho frequentato la scuola pubblica, toccando quindi con mano una realtà difficile. Ma non uscivo mai di casa, sono stato accudito dalle mie meravigliose zie paterne Emilia e Maria Laura che stavano al piano di sotto. Trafficavo nel laboratorio di ceramica di zia Emilia, dove mi sporcavo le mani con la creta e dove ho imparato l'arte come un gioco. Devo tutto a loro».
Da adolescente qual era il rapporto con Cagliari?
«Durante il periodo liceale frequentavo le cricche, d'estate alla Carapigna, d'inverno al liceo Dettori. Poco o niente di più».
Cosa le piaceva?
«Il mare. E Castello che ha una struttura architettonica e urbanistica che mi ha sempre affascinato. A volte da studente facevo lunghi giri pur di attraversarlo, mi piaceva salire e guardare la città dall'alto».
Per scoprire cosa?
«Una città unica. Io ne ho girate davvero tante, dalla Cina all'Africa, dagli Stati Uniti al Sudamerica all'Europa ma vista dall'alto Cagliari è una delle più belle città del mondo, con una posizione geografica - così chiusa da due mari - invidiabile».
Bella ma...
«Incapace di valorizzarsi. La prima cosa che mi viene in testa... il Poetto. In un altro posto sarebbe stato un luogo di villeggiatura internazionale, una spiaggia che potrebbe essere Copacabana invece, passatemi la battuta è Copaccabadda, tutto finisce lì».
Lei è architetto, ha studiato urbanistica, tiri fuori un'intuizione.
«Mi vien da pensare a una piccola Montecarlo, alla Costa Azzurra. Alberghi, parchi, pure grattacieli e casinò per il gioco d'azzardo ben oltre la lunga linea della spiaggia che deve restare intonsa. Invece abbiano saline puzzolenti e inutilizzate, i cadaveri degli stabilimenti balneari e persino un ospedale».
È il libro dei sogni?
«Io mi occupo del recupero di vecchie aree industriali da mettere a reddito. Adesso sto lavorando alla trasformazione di una grande ex fabbrica nel Nord Italia e so bene che se non creo una zona commerciale il progetto è insostenibile. Perché non provarci col Poetto?».
Già, perché?
«Al di là della proposta, mi sembra che ci sia in giro poca creatività. Poi il cagliaritano ha un difetto, è pagu bessiu . La città ha ancora dei ritmi soporiferi, non vive ai ritmi lavorativi del resto del mondo. Quando torno a Cagliari sento improvvisamente una frenata. E la gente non mi sembra neppure felice. C'è uno scazzo in cui il cagliaritano galleggia. E io, che ho da presto sofferto di questo clima smidollato, me ne sono andato a 19 anni a Roma per studiare architettura».
C'è più rabbia che amore nelle sue parole.
«Attenzione, non denigro la città che mi ha partorito e che mi ha comunque permesso di diventare quello che sono. Però mi ferisce che Cagliari tradisca le sue potenzialità. Guardo il Poetto, devastato dopo il ripascimento, e vedo un ospedale sulla spiaggia. Guardo Buoncammino e su quel bellissimo colle c'è un carcere. Guardo Sant'Elia, quartiere vilipeso, e noto che sarebbe potuta essere una zona turistica residenziale di lusso».
Un cahier de doleance...
«Continuo? Dove si trova un Largo così imponente che sfocia sul lungomare della via Roma? I cagliaritani sono seduti su una pentola d'oro e non se ne accorgono. Mia moglie dice “vicinanza fa ignoranza”, cioé quando una cosa ce l'hai sotto gli occhi tutti i giorni alla fine ne ignori il valore».
Che fare?
«Pensare a uno sviluppo imprenditoriale, avere un atteggiamento creativo nei confronti del proprio territorio, andare a vedere cosa hanno fatto gli altri».
Qui si chiama in causa la politica, le grandi scelte.
«Non voglio parlar male di chi governa, del sindaco, sarebbe troppo facile criticare quando sei all'esterno, al posto loro avrei sicuramente una montagna di problemi. Io parlo invece di un Dna da modificare. Il cagliaritano si crogiola fra una spiaggia e un orario comodo, ha tempi dilatati. Già nella parlata casteddaia c'è tutto: è lenta, trascinata, fatta di vocali che non finiscono mai. Io ho qualche punta di revanchismo sanmichelino piuttosto che di borghesia cittadina. Ma in profondità mi sento più sardo che cagliaritano».
In che senso?
«Noi “sardi d'esportazione” siamo apprezzati perché lavoriamo sodo e facciamo poche chiacchiere. Poi io penso spesso in sardo. Se devo farmi capire, usare dei termini che aiutano a essere molto chiaro e incisivo allora mentalmente uso il sardo, dopo traduco. È un meccanismo che mi scatta in automatico».
Lei è un designer di successo: se Cagliari fosse un oggetto, quale sarebbe?
«L'ho sempre vista come una porta, un luogo di passaggio che ti introduce all'interno di una cultura. La porta di un grande castello assediato attraverso la quale però puoi scoprire bellezze nascoste».
La chiave della casa di Cagliari che per lunghi anni si è portato dietro serve per aprire o chiudere questa porta?
«La porta è una metafora, è un oggetto utile se fa parte di un contesto. E Cagliari non la puoi giudicare da un particolare, ha un valore se la consideri nella sua totalità».
Tornerebbe?
«A vivere no, ma sarei ben felice se qualcuno mi chiamasse per dar corpo a un'idea che faccia crescere Cagliari».
Sergio Naitza