Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

La città al centro del mondo

Fonte: L'Unione Sarda
18 aprile 2012

Il regista Gianfranco Cabiddu ricorda la Cagliari anni '70 sull'onda del rock
e delle band: laboratorio creativo travolto dalla modernità e dal meticciato
 

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Certo, è il suo mestiere ma nessuno lo ha obbligato a dedicare quattro dei suoi film a Cagliari. Ne avrebbe girato anche di più, invece la città con lui si è un po' chiusa a riccio e le belle idee, anche quella di costituire una casa di produzione, sono appunto rimaste idee. «È come se Cagliari mi avesse cucito addosso alcuni versi della poesia Itaca di Costantino Kavafis: e che da vecchio metta piede sull'isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada, senza aspettarti ricchezze da Itaca ».
Di aspettare la vecchiaia Gianfranco Cabiddu, 59 anni, regista, non ne ha voluto sapere: aveva pure comprato una casetta in città, quartiere Stampace, poi è dovuto tornare a Roma: e il vestito da emigrato non riesce ancora a toglierselo, ora sono quasi 40 anni che lo indossa e gli va stretto. Magari avesse accumulato tesori («neanche quelli») che la sua Cagliari-Itaca gli ha negato, gli sono però rimaste le radici, forti, inossidabili, un richiamo che non è possibile cancellare. Agli inizi soprattutto, quando ventenne sei appena andato via («studiavo al Dams di Bologna») e ti sembra di dover far qualcosa per il luogo natale. E infatti, con altri due amici “fuoriusciti” (Bruno Tognolini e Giancarlo Cao) aveva firmato il documentario Cartolina «che conteneva i sentimenti contrapposti di noi tre verso la città», sentimenti poi affinati in un altro doc, intitolato semplicemente Cagliari , (lavoro su commissione per il solito convegno sulla città “capitale del Mediterraneo”) la cui filosofia era racchiusa nella frase finale non esti a s'indi pesai ma a inzertai s'ora , «perché mi sembrava che Cagliari si fosse addormentata e solo risvegliandosi avrebbe potuto ambire a quel ruolo di capitale». Poi è venuto il grande film di finzione Il figlio di Bakunìn , «che era un omaggio a Sergio Atzeni e ai nostri luoghi frequentati in gioventù» e infine Disegno di sangue , un noir tv nato da un soggetto di Marcello Fois e sceneggiato da Giancarlo De Cataldo che «raccontava in filigrana la stratificazione della città, la zona povera sul mare, quella commerciale e la parte nobile di Castello». Ce n'è abbastanza per far aprire a Cabiddu il suo album cagliaritano.
Che infanzia ha avuto?
«Ero un ragazzo della via Paal, almeno così mi sentivo. Abitavo in via Todde, nelle case per i militari: alle spalle c'era la via Dante, ovvero la città; davanti il mandorleto e la campagna ovvero il terreno libero per i nostri giochi».
Come viveva la città?
«A piedi, talvolta in pullman. Mio padre non aveva la patente e quindi neppure la macchina. Ho la percezione di una Cagliari scoperta e “conquistata” giorno dopo giorno. C'erano le bande allora: gli allegroni che presidiavano piazza Pascoli, più in là la cricca di San Benedetto molto cattiva. Talvolta ci spingevamo verso Sant'Avendrace, la zona più pericolosa per noi ragazzini. E si facevano le battaglie, c'era un focoso spirito come le contrade del Palio. Roba da “guerra dei bottoni” con un arsenale di lampadine fulminate, fionde e perdigoni . Avevamo pure un cane randagio, sfamato solo da noi, che abbaiava quando i nemici si avvicinavano al nostro feudo».
L'adolescenza?
«Mi sono trasferito di poche centinaia di metri ma era già un'altra Cagliari: via dei Visconti. Il mandorleto scompariva a vista d'occhio e noi andavamo in cambarada verso via Dante, una strada che ci pareva ricca, moderna, con negozi che ti calamitavano. Ma preferivamo una piola per estenuanti sfide a biliardino dove, senza troppe storie, potevamo bere il passito come una grande trasgressione. Oppure si puntava verso il bar dei panini africani, col gestore trombettista. Evitando di passare davanti al Marabotto perché ci stazionava mio padre con gli amici».
Il resto della città?
«Castello mi appariva vecchio. Ma era il luogo dell'avventura. Entravamo nel Ghetto degli Ebrei, pieno di buche, scendevi sotto le cisterne: erano prove di coraggio, non dovevi fartela addosso».
A 18 anni cosa succede?
«Cambio io, cambia la città. Perché ho incontrato il cinema ma soprattutto la musica. All'Ide Forum di padre Guidubaldi potevo conoscere film d'essai che mi aprivano un mondo. Poi con l'esplosione del rock ho “scavallato il colle”: andavo a Sant'Avendrace, off limits negli anni adolescenziali, diventata il covo delle band. Sulla via c'erano tanti locali che erano le sale prove, era l'epoca dei complessini, l'inizio della perdizione. Suovano il flauto, i Jethro Tull erano all'apice, e quindi ero molto richiesto: un Jan Anderson dei poveri ma che divertimento».
La musica trasformava anche Cagliari?
«Assolutamente, il rock ha favorito il meticciato cittadino, abbattendo barriere rionali. Nel senso che nelle band suonavano delinquenti e borghesi, ceti sociali e culturali differenti che s'integravano sotto la spinta della passione per la musica. C'erano anche frange più sofisticate, è vero, per esempio quella che si è rifugiata al Club 73 in Castello, dove si suonava west coast . Poi questi fermenti si sono incontranti quando è nato il Gong, storico locale dove oggi c'è il Libarium: è arrivato il jazz, meglio il free jazz, che voleva dire libertà e creatività».
Per esempio?
«Da un punto di vista, diciamo, “carnale” ci si faceva di canne, intortamenti con le ragazze, appartamentini affittati in dieci a 3 mila lire al mese e trasformati in uno “scannatoio”. Ricordo che nei locali dei “Viaggi della gioventù” c'era un cunicolo segreto dove fumavi spinelli, ascoltavi l'ultimo disco di Miles Davis in silenzio: si viaggiava con la testa».
E da un punto di vista culturale?
«Cagliari mostrava un fermento da metropoli, era come elettrizzata dalla modernità, la mia generazione e in particolare quella un po' più adulta della nostra - che aveva in Alberto Rodriguez e Marcello Melis due maestri di vita - vedeva Cagliari come un posto nel mondo. Le mete non erano Roma o Milano ma Londra, Parigi, Amsterdam: come dire, si saltava il passaggio intermedio per dialogare direttamente con le città europee, luoghi di veri laboratori culturali».
Quanto è durato questo boom?
«Poco, è subito arrivato un momento di oscurantismo, la città s'è rinchiusa. Io ero già a Bologna, poi a Roma e ogni volta che tornavo notavo un progressivo slittamento verso il basso. All'inizio mi mancava il rapporto col mare e con i baretti del Poetto, mi piaceva sentire che lo slang produceva parole nuove e mi sembrava di trovare ancora vivacità».
Invece?
«Erano solo i pochi segnali di curiosità visibili dentro una decadenza che, nonostante meravigliose occasioni - penso al Festival Jazz che tutti ci invidiavano o all'esperienza di Video on line con la città che poteva tramite web stare al centro del mondo - ha fatto precipitare Cagliari verso il basso».
Persa un'occasione di riscatto?
«Forse si è smarrito quel carattere autoctono, quella sua forza di mescolanza. La città è scivolata dentro le mode, vittima dell'omologazione, ed è tornata a essere provinciale. Adesso ho la sensazione che sia immobilizzata».
Non le piace più?
«Al contrario, è di una bellezza che noi non percepiamo, ha un centro storico affascinante anche se degradato ma la vedo in bilico, incapace di scuotersi, di promuovere i suoi tesori».
Insomma, ci tornerebbe?
«Ci ho provato ma negli ultimi anni, ed è una sensazione personale, è come se arrivassi in un paese straniero e debba mostrare il passaporto: chi sei, cosa fai. Sento che s'è creata una scala di valori dalla quale tu, emigrato, sei fuori. C'è un senso di difficoltà a essere accettato. Contano altri valori che non contemplano la memoria, la ricchezza culturale e morale di uno “straniero” che arriva qui. A me sembrava possibile cambiare le cose, volevo far cinema a Cagliari, ma piano piano sono stato inglobato in una mediocrità che livella tutto verso il basso, comprese invidie e gelosie».
Dunque tornare solo alla fine del viaggio, come dice Kavafis.
«Sarà destino. Ma già nei miei primi documentari su Cagliari avevo intuito che non devi svegliare troppo la gente, non devi dar fastidio. Aveva ragione Sergio Atzeni, compagno di lunghe discussioni: la forza di Cagliari sta nella mescolanza della sua gente, chiudersi è rinunciare al futuro».
Sergio Naitza