Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

La partita con Dio, inseguendo la libertà

Fonte: L'Unione Sarda
27 marzo 2012

Cagliari, per il Festival della Filosofia che si chiude oggi

Mancuso e D'Alessandro al Massimo

“Per ogni uomo che viene sulla terra la partita è sempre tra Io e Dio”, scrive Vito Mancuso nella sua “guida dei perplessi”. Sintesi semplice e immane. Va da sé che di (un) dio si può fare a meno, ma anche in questo caso resta la dimensione della “disputa” annunciata dal teologo. Positivo o negativo, non ci sono alternative: se si scende in terra bisogna scendere in campo. L'Io non può sottrarsi. La partita, naturalmente, si può giocare in molti modi: in difesa, all'attacco, persino ai tempi supplementari. Infiniti tornei individuali, spesso (e talvolta tragicamente) trasformati in collettivi, hanno fatto e fanno la storia dell'uomo, eppure c'è sempre un modo nuovo di giocare. Quanto meno un modo che non è stato esplorato fino in fondo.
Comunque sia, l'uomo ricerca, o deve ricercare, «l'arte del vivere». Che significa spiritualità. Il tema del Festival della Filosofia che si chiude oggi al Massimo di Cagliari offre una via difficile ma sicura: Legge-Libertà-Grazia. E Mancuso è d'accordo sulla direzione. Meglio, la rivendica. Ma come attrezzarsi nel cammino? Come raggiungere l'obiettivo? Su questo fronte può dire qualcosa il filosofo-teologo russo Pavel Florenskij, fulcro dell'incontro di domenica con Mancuso, dell'Università San Raffaele di Milano, e Alessandro D'Alessandro, dell'Università di Firenze. Dalla Russia all'Oriente, da una spiritualità vissuta al Buddismo e ritorno, per verificare i punti di contatto.

Florenskij, ovvero persona e opera che si fondono. Nella sofferenza. «E quanto pensiero può nascere dalla sofferenza», secondo mille testimonianze storiche. Quanti diari scritti dal carcere sono monumenti di cultura necessaria. Concetti puri, riflessioni come dono lacerante. «Il dolore genera conoscenza». Nel 1937 Florenskij - al tavolo del teatro Mancuso veste i panni del biografo - scrive dal gulag. Ha studiato matematica e teologia, si è sposato, è diventato sacerdote ortodosso. Nel 1917 tutto cambia, la Rivoluzione fissa altre regole, e Dio non fa eccezione. Florenskij è costretto a fare l'operaio, poi il professore, «ma non abiura mai». Finale: processo farsa, lavori forzati e un colpo di pistola alla nuca. Il corpo finisce in una fossa comune di Leningrado. Con un breve testamento: “Non dimenticatemi”.
In realtà Pavel Florenskij lascia ben altro. Diversi punti di straordinaria spiritualità, insiste Mancuso. Innanzitutto «la voglia di capire, di guardare tutto». Di considerare «il mondo come un insieme e io in mezzo alle cose». Perché la spiritualità ha a che fare con la materia. Ma il mondo si guarda e si vede «muovendosi». Seduti in un solo punto della stanza non si coglie tutto. Se si moltiplicano gli angoli della visuale si afferra molto del tutto. «Se il pensiero si muove è vita, altrimenti è null'altro che ideologia, dogmatismo». Guardare implica poi “come” guardare. E il mondo va osservato dialetticamente. Qui Florenskij introduce il concetto di “antinomie”. E, per conseguenza, l'arte di cogliere le contraddizioni. Scrutarle, accettarle, valutarle, non nasconderle. Legge e Libertà possono scontrarsi? È terreno di antinomie, bisogna ararlo. Con impegno, dedizione.
“Lavoro tenace e integrale”. Lavoro, quasi inutile sottolinearlo, su se stessi, principalmente. «Bisogna avere davanti l'armonia e cercare di realizzarla». Senza timori. Gestendo anche la noia, per esempio. Perché temerla? Tanto più che avrà sempre un posto e un ruolo nell'esistenza dell'uomo.

Detto in modo filosoficamente poetico, è una gran cosa “trattenersi col cielo”. Scoprendo magari la legge della compassione. A questo punto D'Alessandro individua «la profonda analogia» fra la tradizione buddista (è un esperto in materia) e la spiritualità di Florenskij, «un uomo forte e libero» in grado di parlare alla coscienza dell'umanità. In una realtà, e cioè il nostro piccolo villaggio globale contemporaneo, che «non tollera più steccati ideologici», affermazione sulla quale, a dire il vero, si potrebbe discutere parecchio. Nel filo orientale D'Alessandro fa correre appunto la legge della compassione, che governa mondo e vita, «perché dipendiamo l'uno dall'altro». Il che non comporta l'eliminazione dell'identità. L'individuo deve insistere nella globalità.
Non sono temi fuori tempo. Si parla - e quanta sterminata letteratura finora - della crisi di un'epoca, e della fine della modernità. Che esige nuove strade: Pavel Florenskij orienta verso un umanesimo della responsabilità, dal fondo dei secoli il Buddismo suggerisce benevolenza e compassione, nella certezza (nella “pratica”) dell'interdipendenza: «Nessuno basta a se stesso». In un foglio di carta, se guardiamo bene, c'è una nuvola, perché la nuvola è pioggia e la pioggia è albero e l'albero è carta. E un solo istante contiene tutto il mondo. Altra frase chiave: “Sentire il mondo”.

Al termine del dialogo, dei monologhi che si intrecciano nella sostanza, spunta l'idea portante, per Mancuso e D'Alessandro: la libertà. O i tanti volti della libertà, a cominciare da quello che riesce a liberarsi delle religioni. E quindi delle istituzioni. C'è un buona teologia che fissa la ricerca e non la Chiesa. Una teologia per la quale le istituzioni fondamentali sono la vita e il mondo. Vita e libertà sono inscindibili: se si rispetta la seconda si rispetta la prima. Vale la pena rileggere un passo di “Io e Dio”: “La libertà si compie nella misura in cui aderisce alla verità in quanto logica della vita, e tale logica della vita è la relazione armoniosa”. A buon diritto, alla fine della mattinata, D'Alessandro sottolinea «le molte cose» su cui i due studiosi sono d'accordo. E irresistibile a questo punto - per antinomie che si toccano - rileggersi anche un passo di “Senza Dio” dell'“ateo protestante” Giulio Giorello: i fondamentalisti (religiosi o politici) non si accorgono che “quanto più solido, ben definito e splendido è l'edificio eretto (dalla loro religione) tanto più impetuosa è la pressione della vita, per fuggire via verso la libertà”. Parola di Hegel.
Roberto Cossu