Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

L’isola dei «Pugni Chiusi»

Fonte: La Nuova Sardegna
5 ottobre 2011



Cagliari, al Massimo il documentario sui lavoratori Vinyls



Un appassionato racconto della lotta e dell’occupazione dell’Asinara da parte dei lavoratori

GIANNI OLLA

CAGLIARI. «Ho nostalgia di Berlinguer...». Questo e altro dichiara un operaio tra i tanti che per un anno e quattro mesi si sono auto reclusi nell’ex carcere dell’Asinara e che sono poi diventanti i protagonisti di un film, «Pugni chiusi».
Su quell’azione, provocata dalla chiusura della loro fabbrica, la Vinyls, produttrice d’avanguardia del Pvc, la plastica usata per ogni tipo di contenitore, acqua minerale compresa, si sa già molto, a partire dall’intelligente autopromozione dei primi lavoratori che sbarcarono sull’isola per trasferirsi nelle celle di Fornelli. Lo slogan, «L’isola dei cassintegrati, ovvero l’unico “reality” reale», ha fatto il giro del mondo tra stampa e Internet, ha costretto i giornalisti e le tv a sbarcare nell’isola, ed ha attratto altri lavoratori solidali che hanno sostenuto l’attesa - ancora non conclusa - di una risoluzione positiva della loro vertenza.
Poi la regista Fiorella Infascelli ha deciso di girarvi un documentario, appunto «Pugni chiusi», che è stato inserito in concorso in Controcampo Italiano, una sezione della Mostra Internazionale del cinema di Venezia, dove ha vinto il primo premio.
Stasera alle ore 20, presso il Teatro Massimo, verrà presentato per la prima volta ad un pubblico normale, alla presenza della regista, dell’assessore regionale alla cultura Sergio Milia, di alcuni protagonisti della pellicola, e dei dirigenti della Società Umanitaria-Cineteca Sarda, che si sono associati al progetto come coproduttori e si sono poi assunti anche l’onere dell’organizzazione cagliaritana, prima tappa di una circuitazione sarda più vasta.
Ma, come si può capire dalla dichiarazione posta in apertura, il film della Infascelli si occupa non già del fenomeno spettacolarizzato, ma di quegli esseri umani catalogati nel settore “lavoratori che non lavorano più” e cominciano ad essere, in Sardegna e in Italia, troppo numerosi. Così, se le storie individuali tendono alla commozione - assolutamente giustificata - e alla ricerca di una nuova forma di comunità esterna alla fabbrica, la costruzione del film, ben fotografato da un maestro come Franco Di Giacomo (Osella d’oro a Venezia), tende alla metafora.
Era già accaduto con un altro celebre documentario sul lavoro (che manca): «Dinamite» di Daniele Segre. Girato a Nuraxi Figus, tra Carbonia e Iglesias, un pozzo minerario occupato dagli ultimi lavoratori, celava, dietro l’auto rappresentazione degli operai duri e puri, una sorta di simbologia: l’ultima frontiera della più antica industria sarda, quella mineraria.
Anche il rimpianto nei confronti di Berlinguer da parte del simpatico operaio che si rifugia in un bosco di lecci o sulla cima di uno scoglio ad osservare poiane e delfini, è immediatamente riconducibile ad un’epoca in cui le lotte operaie, durissime anche a Portotorres, avevano come obiettivo la dignità del lavoro: nelle paghe, negli orari, nella sicurezza.
Diciamo che per la Sardegna, il punto di partenza sono gli anni Sessanta e a quell’epoca appartiene anche il contradditorio titolo del film, «Pugni chiusi», che, secondo la regista è ispirato al verso iniziale di una celebre canzone, piuttosto pessimista, dei Ribelli, eseguita da Demetrio Stratos. Fu composta nel 1967 ed è obbligatorio ricordare che altri «Pugni chiusi» appartenenti al radicalismo operaista, avevano una grande paura dell’integrazione consumista da parte dei lavoratori delle fabbriche.
Questa integrazione c’è stata e per almeno vent’anni, anche grazie ad altri pugni chiusi - e a Berlinguer, direbbe il nostro eroe solitario - i lavoratori italiani hanno conquistato la dignità e sono usciti dalla condizione di “dannati della terra”. Oggi, il paradosso a cui accennano molti dei protagonisti è che l’obiettivo è il lavoro punto e basta: quello che permette di campare e pagare il mutuo della casa.
L’altra figura retorica che appare nei “cameracar” che spezzano la teatralità delle tavolate e delle dichiarazioni, rivelando l’unicità di quest’isola-parco, riguarda interamente la Sardegna. Si parla sempre della sua bellezza, della sua unicità e, giustamente, ci crediamo anche noi, non solo i turisti o i giornalisti che allestiscono i reportage. Ma poi, dietro il “velo dipinto” - direbbero i buddisti - degli straordinari paesaggi marini e montani, c’è metà della popolazione giovanile senza lavoro e un intero apparato industriale che progressivamente chiude i battenti. A che serve tanta bellezza, affermano coloro che ricominciano ad emigrare? Anche i cassintegrati della Vinyls forse non torneranno più all’Asinara, neanche come turisti.