Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

«Che ci fanno? Non c'è lavoro»

Fonte: L'Unione Sarda
6 aprile 2011

Sorpresa, scetticiscmo, fastidio e briciole di solidarietà fra i cagliaritani: «Perché non li spediscono in Padania?»

«Ma che ci fanno qui? Non sono mica rifugiati: la guerra è in Libia, ma questi arrivano dalla Tunisia dove non mi risulta vengano bombardati da nessuno. Perché dobbiamo accoglierli?». È ora di pranzo, seduto con due amici al tavolino esterno del caffè “La Boom”, sotto i portici di via Roma, Ercole Piras (ex commerciante cagliaritano in pensione) non sembra avere dubbi: «Devono tornare a casa».
PRO E CONTRO Davanti a un aperitivo fresco per combattere l'afa, il pensionato commenta così la notizia dell'imminente arrivo a Cagliari di centinaia di immigrati, destinati ad essere accolti in un'area militare vicino Elmas. «Chiariamoci, non è una questione di razzismo», ripete, «ma abbiamo già tanti problemi noi: non c'è lavoro per nessuno, figuriamoci per queste persone disperate che…». La frase resta a metà, perché ad interrompere Piras ci pensa l'amico alla sua destra, Natale Atzori (quasi settantenne), tornato in città ai primi anni Novanta, dopo una vita di lavoro trascorsa tra Germania, Belgio e Torino. «Ma non ti vergogni di parlare in questo modo?», lo rimprovera, «e noi non facevamo lo stesso per scappare dalla povertà? Grazie al lavoro da emigrato, io ho fatto studiare anche i miei fratelli, come sai bene. Ho provato che significa essere sardo a Torino, quando non ci davano nemmeno la casa in affitto».
SCELTA BOCCIATA L'argomento ha infiammato e diviso i cagliaritani a passeggio davanti al porto, con la maggior parte degli intervistati che, a microfoni spenti, ha bocciato categoricamente la scelta di accogliere gli immigrati.
«Il mio nome non lo dico perché poi mi prendono per razzista», spiega un ragazzo seduto al tavolino del bar “Daisy” con la fidanzata, «ma se fosse per me, li fermerei e li rimanderei indietro con le navi da guerra». Chi di dibattiti come questo ne ha sentiti parecchi è Giorgio Durzu, edicolante che da 38 anni vende i giornali sotto i portici di via Roma: «Devono essere accolti, visto che c'è un'emergenza. Ma poi bisognerà fare una scelta: decidere se rimandarli a casa o da altre parti. Qui il lavoro non c'è nemmeno per i nostri ragazzi, d'altronde non sono nemmeno persone che creano economia. Noi lo vediamo qui nel quartiere più multietnico della città, Marina: gli immigrati sono integrati, lavorano quasi tutti, ma hanno anche i loro negozi e non spendono mai nelle nostre attività. Se per esempio devono chiamare un muratore, se lo cercano tra loro».
«MANDATELI AL NORD» Poco lontano, in un negozio di elettrodomestici, c'è chi è tutt'altro che favorevole. «Ma perché non li mandano al Nord», dice Stefano Mallus, uno dei titolari, «almeno lì possono trovare qualcosa da fare. Qui non c'è lavoro, possiamo solo sfamarli, col pericolo che fuggano e poi, disperati, magari commettano anche qualche reato. Quello che sta succedendo è un'ingiustizia: le altre nazioni d'Europa se ne lavano le mani e tutto ricade sulle nostre spalle».
«OTTIME PERSONE» Tra le risposte dei cagliaritani, c'è anche chi non sembra preoccuparsi. In via Is Mirrionis, ad esempio, nel negozio di frutta e verdura “Iris”, la musica è del tutto differente: «Ho tanti clienti che arrivano dal Marocco, dalla Tunisia e anche cinesi», dice la giovane titolare, Iris Meloni, «persone squisite, molto meglio di tanti nostri connazionali. L'unico problema è la crisi, dunque non so come sia possibile farli restare tutti qui, se è vero che arriveranno a centinaia. Spero comunque che non li mettano in una tendopoli: sino a quando sono clandestini devono poter essere controllati, accuditi, ma non devono poter scappare». E una cliente: «Sono nostri fratelli che muoiono di fame».
CITTÀ DIFFIDENTE Ma appena fuori dalla bottega, la maggior parte delle reazioni tornata a essere negativa. «Non capisco cosa cerchino qui, visto che non possiamo offrire loro un lavoro», dice Raimondo Maccis, ambulante: «Guardate me, mi prendono due mesi all'anno nei cantieri del Comune, ma i miei figli devono mangiare anche gli altri dieci mesi. Alla fine è una lotta tra poveri: arrivano questi disperati che sono disposti a lavorare anche per 15 euro al giorno. Noi diamo loro una mano, ma a noi chi ci aiuta?».
FRANCESCO PINNA