Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

Spine e polvere di silenzio dentro le valigie di Ottonello

Fonte: L'Unione Sarda
2 novembre 2010

Mostre. Arte povera e libera in esposizione fino al 27 novembre al Teatro Lirico di Cagliari
Migrazioni e antiche civiltà trafitte da un ricordo, testimoniate da un bagaglio
Lui, con le attuali spinose questioni dei lavoratori del Teatro Lirico di Cagliari, in assetto permanente di pacifica battaglia, non c'entra.
Anche se ne ha piantate molte, di spine, Antonello Ottonello. Nelle coscienze, prima che in tarlatane, tele di sacco, carte fatte a mano, valigie e cuscini. Spine di acacie selvatiche, contundenti, di biblica memoria. Disponibili copiose in natura. Basta saper guardare. La questione è sempre lì - nel saper guardare - per un artista. Dopodiché bisogna che sia capace di tradurre il proprio sguardo sulla realtà in qualcosa che arrivi diretto agli occhi e alla coscienza del fruitore stimolando pensieri, riflessioni.
Azioni, anche, perché no: una passeggiata in campagna, a raccogliere rami spinosi, o scaglie di scisto, o ad osservare paesaggi di rovine. Prendiamolo come un suggerimento, una suggestione. In realtà quello che profondamente ci indica, con la sua indefessa ricerca, questo artista poverista - riconducibile all'Arte povera, così nominata da Germano Celant a metà degli anni sessanta - è una dissidenza dell'anima, una passeggiata controcorrente, contro l'omologazione, nel territorio del dubbio e delle domande.
PERCHÉ Perché le valigie, cosa vogliono dire tutte queste spine, chiedeva una ragazza all'amica, mentre passeggiavano fra la parata di lavori che il Teatro Lirico di Cagliari, con il contributo del Banco di Sardegna, presenta nell'ampio e luminoso spazio dedicato alle mostre (fino al 27 novembre, catalogo con foto di Giorgio Dettori e testo di Anna Maria Montaldo). L'amica ha risposto che ognuno vi poteva dare il significato che più riteneva opportuno. Infatti è così. Basta valutare - ma questo solo chi ha seguito nel tempo il percorso di Ottonello - la migrazione semantica che lo stesso artista ha operato a partire dai suoi lavori. Bisogna andare agli inizi degli anni Novanta per risalire all'origine di un viaggio di cui oggi, con questa mostra che appare una semi-antologica, si celebra la maturazione. Non il termine, perché la notte di Ottonello, superbo nell'uso dei blu e dei grigi polvere, è un viaggio senza termine. Iniziato dalle miniere del Sulcis, soprattutto da quelle di Ingurtosu, quando ancora quel luogo era un incanto di rovine e dune lontano dal clamore turistico. Con uno scatto creativo preveggente, l'artista cagliaritano ha iniziato a raccogliere in loco tracce di quella civiltà mineraria. Brandelli di camicie, pietre, carbone, zolfo, bulloni, ferri arrugginiti. Ha composto quadri grandi, pesanti, il peso di una storia silenziosa e buia, nel tentativo di un riscatto almeno estetico, purché funzionale alla memoria (termine abusato ma necessario).
LE VALIGIE Le valigie sono arrivate poco dopo. Ed erano quelle loro, dei minatori del Sulcis. Povere valigie di cartone che un artista poverista ha raccattato per mercatini, trasformandole poi in quadri, da appendere, poggiare come sculture, paesaggi di rovine impressi sull'oggetto simbolo del viaggio. Ma anche simbolo dell'emigrazione tout court. Ecco che, negli anni, la ricerca partita da un remoto angolo di civiltà mineraria abbraccia idealmente, con le sue valigie, ora infilzate con spine, tutti gli angoli di civiltà sommerse, tutte le razze di tutte le migrazioni. “Valigiemigrazioni” è il titolo della mostra in corso, summa di una ricerca che, partita dalla memoria locale, ha affondato la presa in una delle emergenze più vive e tragiche del presente. “A chi appartengono i ricordi evocati dalle valigie di cartone, dalle stoffe lacerate, dalle spine algide? Verrebbe da dire a nessuno, perché appartengono a tutti”, scrive nell'incipit della sua presentazione Anna Maria Montaldo. Questa trasversalità è la forza del messaggio di Ottonello, in un percorso fra antropologia e sociologia, fra le capacità di adattamento dell'uomo e la ricaduta nel sociale dei flussi migratori, che qualcuno si ostina ad arginare, con espulsioni, sgomberi, esclusioni, contro ogni logica storica.
LO STILE Altro discorso, poi, è la forza formale di questo pittore-scenografo. Perché Ottonello incontri così il gusto della gente - la sera dell'inaugurazione della mostra il teatro sembrava una prima scaligera - è detto dai suoi lavori: la materia vera, naturale, il ritmo compositivo seducono certo. Ma l'uso del colore fa di questo artista un moderno rinascimentale, che traspone celesti manti di Madonne in stesure stropicciate di tarlatane o tele di sacco infilzate di spine. Piace, Ottonello, anche perché sa essere accattivante, facile, forse, ma meglio questa ricercatezza formale di ogni modaiola istanza contemporanea, dai bambocci ai metri quadrati imbrattati, di cui, francamente, si è un po' annoiati.
Bello sarebbe se, a partire da questa proposta, il Lirico celebrasse programmaticamente tutti gli artisti storici della Sardegna, con antologiche che diano ragione di ricerche condotte con rigore e consapevolezza, fuori da mode passeggere e da gratuiti sensazionalismi.
Il luogo porta alla visione delle opere esposte molto più pubblico di un qualsiasi altro centro culturale o museo, destinato a pochi visitatori subito dopo l'inaugurazione.
Ma prima di tutto il Teatro Lirico salvi se stesso e i propri lavoratori. Non sia triste presagio, per loro, questa bella mostra.
RAFFAELLA VENTURI

02/11/2010