Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Cagliari vista dai margini

Fonte: La Nuova Sardegna
12 luglio 2010



Due corti di Salvatore Mereu su Is Mirrionis e Sant’Elia



Ho lavorato coi ragazzi delle scuole. Insieme abbiamo scritto le sceneggiature e girato le pellicole

GIANNI OLLA

CAGLIARI. Un treno che porta verso il nord; a bordo, anche un adolescente senegalese e sua madre. La donna intona una melodia bellissima e ne spiega il significato ad un gruppo di ragazze in gita scolastica: la gioia di una madre che ha ritrovato il figlio.
Siamo in un film, anzi in due medio metraggi, e le sequenze che abbiamo sintetizzato fanno da cesura tra i due titoli, «Via Meilogu 18» e «Via Schiavazzi». Entrambi firmati da Salvatore Mereu, con una sceneggiatura collettiva, vale a dire elaborata assieme al gruppo di studenti delle scuole medie cagliaritane che danno il nome alle pellicole: la prima nel quartiere di San Michele - Is Mirrionis; la seconda, all’altro capo della città, tra i palazzoni famigerati (socialmente e urbanisticamente) di Borgo Sant’Elia.
Abbiamo visto alcune sequenze in fase di montaggio, in attesa che il regista presenti il primo titolo al Festival internazionale del cinema etnografico di Nuoro, a fine settembre, e magari, successivamente, decida davvero di far uscire i due filmati in un’unica edizione, come ci ha mostrato al montaggio.
Ma, in realtà, data la provvisorietà di questa visione è interessante raccontare non già le microstorie dei film, ma piuttosto questa nuova avventura di Mereu, che, in qualche modo, finisce per portare al suo progetto di trasposizione di «Bellas Mariposas», il racconto postumo di Sergio Atzeni. Un progetto al quale Mereu pensa da un po’ di tempo. Sarebbe la seconda volta che l’autore di «Un ballo a tre passi» traspone in un film un testo letterario. Lo ha già fatto infatti con la sua ultima pellicola, «Sonetaula», tratta dal romanzo scritto da peppino Fiori.
Lo stesso Mereu dichiara che quando gli è stato offerta la possibilità di guidare un corso di educazione all’immagine per i ragazzi delle scuole medie, ha accettato l’incarico pensando proprio alla necessità di conoscere la città, ovvero la vita delle periferie cagliaritane, e provare a studiare il modo di rendere viva, attraverso il contatto con gli adolescenti, la sceneggiatura tratta dal libro di Sergio Atzeni.
«Ovviamente - dice Mereu - i due progetti non possono essere confrontati. Via “Meilogu 18” e “Via Schiavazzi” sono nati come semplici saggi di fine corso. Inizialmente si pensava di non superare i dieci minuti o poco più, ma, dopo essere entrati nel clima, le storie individuali e collettive si sono intrecciate ed era difficile pensare a tagli drastici delle vicende elaborate dai ragazzi. Dopotutto quegli istituti sono un po’ l’emblema del disagio giovanile, e non solo giovanile. Via Meilogu è ben dentro la città, circondata da quartieri popolari, ma anche di classe media, e con un’alta percentuale di frequentanti extra comunitari». Ho cercato di selezionare, assieme agli insegnanti e al preside dell’istituto, un gruppo che comprendesse questa disomogeneità e da cui scaturissero esperienze umane da rielaborare in maniera “finzionale”». «Il polo scolastico di Via Schiavazzi - spiega ancora Mereu - è invece separato dalla città: rappresenta totalmente gli adolescenti di Borgo Sant’ Elia, e dunque le storie individuali sono meno marcate».
- Qual è stata l’accoglienza iniziale dei ragazzi?
«Da subito buona, soprattutto in Via Meilogu, visto che alcuni insegnanti ci prestavano, per così dire, quelli che ritenevano irrecuperabili. Poi, quando si è scoperto che, di fronte ad un’esperienza nuova, i ragazzi si aprivano e addirittura scrivevano i testi preparatori per il soggetto e la sceneggiatura, c’è stata persino qualche “scena di gelosia”, indicativa dei limiti generali della scuola italiana».
- Dagli adolescenti di «Ballo a tre passi» che non hanno mai visto il mare, a quelli «metropolitani». Quali sono le differenze di approccio nel passare da un territorio, il nuorese, in cui lei vive, ad un altro di cui non conosceva le dinamiche sociali e culturali?
«Inizialmente occorre affidarsi al sentimento. Ascoltare i ragazzi, stare con loro e con le loro famiglie, visto che i ragazzi-attori non avrebbero potuto partecipare al film senza l’autorizzazione dei genitori. Il modello ideale, almeno sul piano progettuale, è il film di De Seta, “Diario di un maestro”, tratto dal racconto di Albino Bernardini. Dunque, esperienze reali che, anche nei miei film, vengono drammatizzate con gli stessi protagonisti e qualche “figurante”, ad esempio la madre del ragazzo senegalese e i Rom che fanno da corona alla “fuga d’amore” dei due adolescenti che vivono nel campo. Film di questo tipo non si fanno se non si ha l’appoggio delle famiglie. Questo vale soprattutto per Sant’Elia: ogni volta che c’erano problemi, intervenivano i genitori dei ragazzi e mediavano con coloro - ed è facile intuire chi fossero - che non ci volevano in mezzo ai piedi».
- Dopo queste due esperienze, è pronto per «Bellas mariposas»?
«Direi di sì, se ci sono le condizioni produttive. Ho ancora dubbi su dove girarlo. Il racconto di Atzeni è ambientato a San Michele-Is Mirrionis, ma Sant’Elia ha un’impronta visiva unica».