Rassegna Stampa

La Nuova Sardegna

Una festa di popolo o mera ricorrenza?

Fonte: La Nuova Sardegna
28 aprile 2010

Oggi nell’isola si celebra la rivolta contro i piemontesi del 28 aprile 1794, per legge giornata dell’identità isolana dal 1993



Il punto di vista di alcuni studiosi e scrittori, da Giovanni Lilliu a Flavio Soriga



Nicola Tanda Tutto quello che è istituzionale non mi interessa, avrei scelto un’altra pagina di storia: la Carta de Logu

FABIO CANESSA

Messa lì, in mezzo a due ricorrenze come il 25 aprile e l’1 maggio, fa un po’ la parte della cenerentola. Istituita dal Consiglio Regionale nel settembre del 1993, Sa die de sa Sardigna mira, secondo l’intento della legge, a sviluppare la conoscenza della storia e dei valori dell’autonomia, in particolare tra le nuove generazioni. A celebrare quel 28 aprile del 1794, quando scoppiò a Cagliari la rivolta che portò alla cacciata dei piemontesi. Ma ha davvero senso questa giornata del popolo sardo? Ecco cosa ne pensano alcuni scrittori e studiosi sardi.
«Ricordare un evento storico così penso sia importante» dice Flavio Soriga che esattamente in quel periodo ha ambientato «Il cuore dei Briganti», il suo ultimo romanzo.
«Per gli studenti - aggiunge lo scrittore - la Sardegna è come se fosse stata fuori dal mondo e dalla storia. E non è giusto. Poi la storia è per me soprattutto quella degli ultimi, lo dico anche in questo mio ultimo libro. Sono i cagliaritani che si ribellano ai governanti piemontesi, siamo noi. Non bisogna certo dare troppa importanza a quello che comunque è stato un episodio. E vero che abbiamo cacciato i piemontesi, ma anche vero che i piemontesi sono tornati quasi subito. Però quell’episodio in particolare, la resistenza contro i francesi, sono stati momenti in cui la Sardegna è stata pienamente dentro la storia europea. Noi sardi poi diciamo sempre di saperne e invece non è vero. Quindi tutti i mezzi per riscoprire vanno bene, senza studiare la storia cercando motivi per esaltarsi o per trovare conferma alle proprie tesi. Giornate istituite come questa sono quindi per me positive, purché poi siano seguite da un insegnamento costante nelle scuole. Io per esempio in questo mio romanzo devo moltissimo a Luciano Marrocu e Manlio Brigaglia che questa storia l’hanno raccontata».
Non può non essere d’accordo, apprezzare questa giornata, Giovanni Lilliu che è stato uno dei più ferventi promotori della sua istituzione: «Certo che per me è molto importante - sottolinea l’archeologo - Sono tra quelli che l’hanno voluta. Bisogna che i giovani continuino a fare quello che abbiamo fatto noi».
Per la maggior parte dei giovanissimi, però, Sa die de sa Sardigna vuol dire una cosa sola: niente scuola. Non proprio le parole che si aspettano di sentire dalle nuove generazioni i sostenitori della ricorrenza. Che non ha particolare significato non soltanto per molti studenti.
«Meno interessato - dice Alberto Capitta - non potrei essere. Una cosa che sento lontana da me e dal tempo. Una montatura che si sono inventati che farà piacere sicuramente a qualcuno per la vacanza. Non penso proprio serva dal punto di vista culturale e a dire il vero mi sembra un po’ una barzelletta. I piemontesi sono tornati, no?».
Nicola Tanda allarga il discorso: «Tutto quello che è militare e istituzionale - spiega l’esperto di letteratura e lingua sarda - non m’interessa. A un affresco dello Sciuti che dipinge l’Ingresso trionfale di Giovanni Maria Angioy a Sassari e un ciclo di pitture sui personaggi della storia sarda, preferisco Biasi che dipinge invece la Sardegna intemporale, senza storia, un universo antropologico costituito dal vissuto delle persone umili, abbeveratoi con pastori e animali intorno, donne che trasportano l’acqua, processioni, cantatori, tenores, suonatori. Io personalmente non avrei mai scelto un avvenimento politico illustre, rivoluzionario o militare, ma un simbolo espressione di un popolo. Avrei scelto un’altra Sardegna - dice Tanda - quella della Carta de Logu. Un monumento di saggezza giuridica in lingua sarda. il primo codice di leggi scritto d’Europa, pubblicato nel 1392 da Eleonora d’Arborea».
Marcello Fois ne fa soprattutto una questione di principio. «L’utilità, l’importanza - evidenzia lo scrittore - dipende sempre dall’uso che ne fai di questo tipo di manifestazioni. Un uso folk o legato alla memoria collettiva. Se ti servono per chiarire dei punti piuttosto che generare luoghi comuni. C’è differenza tra dedicare una giornata alla propria memoria collettiva e fare riti più o meno posticci di folklore. Ma in definitiva cos’è ufficialmente, cosa si fa in Sa die de sa Sardigna? Mi sembra questo il problema. Poi una giornata della Sardegna festeggiata quasi solo nel capoluogo non mi sembra logico. C’è anche il resto. Dovrebbe essere uno di quei laboratori nei quali finalmente tutte le forze in campo collaborano. Non può essere una manifestazione che deriva dall’alto e viene poi elargita ai sardi».
Avendo lasciato l’isola prima della sua istituzione, Bruno Tognolini confessa di non essere molto informato su Sa die de sa Sardigna: «Non mi è mai capitato di trovarmi in Sardegna quando c’era questa celebrazione - spiega lo scrittore per bambini - e quindi non l’ho mai vista. Rispetto alla feste che celebrano i luoghi, l’onore e l’orgoglio dei luoghi posso dire che per me sono giuste e sante. Rendere onore alla propria terra, come se fosse una festa al santo patrono di una paese allargata a tutta l’isola,è secondo me una cosa ottima. Ed anche giusto rivendicare un orgoglio sardo perché abbiamo un tipo di forza che altri non hanno. Se però tutto questo è inclusivo e non esclusivo, se si mette al fianco di tutte le altre culture per far fiorire insieme qualcosa. Non in contrapposizione a esse».