Rassegna Stampa

L'Unione Sarda

La poesia è come la vita, bisogna coglierne il suono

Fonte: L'Unione Sarda
15 aprile 2010

Franco Loi nell'Isola per gli incontri curati da Oldani: la consapevolezza di sé, la religiosità, il dialetto milanese
Invidia della nebbia, la chiama (vale a dire del nulla). Quella che porta gli uomini a desiderare le ricchezze degli altri uomini. «Sa di chi bisogna essere invidiosi? Di noi stessi, di ciò che non siamo, non di ciò che non abbiamo. Dobbiamo invidiare chi riesce a raggiungere la consapevolezza di sé. Gente come Cristo e come Buddha, per intenderci». Franco Loi non è Cristo, e non è Buddha. È un poeta, uno dei più grandi. Un visionario lucido, un mistico che ha sostituito la parola al silenzio.
Seduto nella saletta di uno storico albergo della Marina, a Cagliari, parla con la sua voce mite, che il dialetto milanese delle sue poesie rende ancora più dolce. I capelli bianchi sul volto scavato, un berretto scuro appoggiato sul ginocchio destro, una umanità che si nutre di carezze vere. È lui l'ospite più ambito di questa terza tranche dei “Traghetti di poesia” che Guido Oldani e Lorena Carboni hanno portato in città, al Search del Largo Carlo Felice, con il sostegno della Provincia (stasera alle 20.30 gli verrà consegnato dal presidente Graziano Milia il titolo di “Ambasciatore della poesia nel mondo”).
È anche l'ospite più nascosto. Celebrato dal Comune di Milano e dall'Italia tutta per i suoi ottant'anni - il 21 gennaio - è gentile ma riservato. Un rapporto di profondo affetto lo lega alla terra che suo padre - nato «a Casteddu» - lasciò bambino, quando rimasto orfano si trasferì a Genova da uno zio. Un amore fatto di nostalgie del passato e di impegni del presente, su tutti il Festival della poesia di Seneghe.
«Sono nato a Genova, e l'ho lasciata a sette anni, per Milano. In Sardegna sono venuto per la prima volta a 24 anni. Cagliari era una città straordinaria, ora è un po' come tutte le altre, industrializzate e imitatrici delle città del nord. Ricordo la campagna, Is Mirrionis era tutto verde, pieno di cespugli e di fichidindia con quelle casette piccole che sembravano cascinali. Alla sera si sentivano i contadini che cantavano con le launeddas. E il Poetto con le Saline, la spiaggia bianca... Per andare a Bonaria dal Casteddu la strada era tutta campagna, e questo dava alla città il senso di una bomboniera in mezzo al verde. Dopo è stato un disastro, come dovunque. Ma la Sardegna è bellissima, se non la rovinano». Quanto a Seneghe, al Cabudanne dei poeti che ormai è diventato un appuntamento del mese di settembre, «finora se continua così è il più bel festival mai visto in Italia, perché partecipano tutti». E cita la donna col velo nero in testa che il primo anno lo ringraziò per strada, dopo averlo sentito, l'artigiano che l'anno scorso scese dal camioncino per dirgli che era stato rincuorato dalle sue parole. «Questo è il senso di un festival. Non la vanità di chi si propone, ma la coscienza di fare qualcosa di utile. Io da tempo non vado più alle manifestazioni poetiche, salvo Seneghe, preferisco le scuole». I luoghi - come le comunità di padre Morittu - dove parlare di poesia significa aiutare gli altri a star meglio. C'è stato in passato, invitato dall'Endas di Rosabianca Rombi, che per prima ha portato Franco Loi e una miriade di poeti in Sardegna, c'è stato più di recente, a Siligo.
Parlare con Franco Loi è un'esperienza esaltante. Ogni domanda apre un mondo, ogni risposta rinnova una certezza: la vita è incomprensibile. «La gente crede che la scienza abbia capito tutto, non è così. Max Planck scrive “più conosco e più mi trovo davanti al mistero”). Einstein avverte che alle leggi universali si arriva non per via di logica ma per intuizione. La scienza è come la poesia: tratta le materie, vuole capirle e penetrarle ma i mezzi che usa non la possono portare alla svelazione del mistero. Nessuno svela niente, al massimo rivela, come la teologia. E ri-velare significa rimettere il velo. Allora il porsi della poesia - come dice bene Dante - è il silenzio: “all'alta fantasia qui mancò possa”».
La poesia dunque nasce dal silenzio? «È un abbandonarsi al nostro essere profondo, e lasciarlo dire. Non è cultura, non è neanche volontà di dire la realtà. La poesia dice ciò che noi non sappiamo con la testa. E il ritmo, il suono, la musica delle parole sono le chiavi per coglierla nella sua essenza».
Di Franco Loi si è detto che non è stato lui a scegliere il dialetto milanese ma il dialetto milanese a scegliere lui. «È vero, io ho sempre scritto, sin da bambino: romanzi, racconti. Poi a 35 anni ho letto i sonetti del Belli, sì di un poeta romano!, e mi son detto: questo qua in 14 righe scrive un romanzo, posso provarci anche io». Ha cominciato così a scrivere poesia in italiano, pensando a Petrarca, Leopardi, Montale. Imitandoli. «Ma poi volevo parlare della guerra, dei morti impiccati che ho visto e allora, allora è stato il milanese a saltar fuori. Quelle persone, quei morti, parlavano in dialetto. Ho provato, e lì ho scoperto la poesia, perché non era più la testa a costruire versi, ma altro: mi uscivano parole che non conoscevo neanche bene. Ma erano quelle giuste».
Fu così che nel settembre del '65 scrisse 119 poesie, un fiume in piena. «Poi sono rimasto cinque anni senza scrivere, facevo politica, e continuavo a lavorare». Fino al 1970, quando morì suo padre e a lui, quarantenne, tornò in mente un'esperienza insolita di tre anni prima. Una passeggiata nella notte che rappresentò la scoperta di un'altra dimensione. «So soltanto che non c'era né tempo né spazio, e che alla fine di quella camminata ebbi la premonizione visiva di quanto sarebbe successo a mio padre. Un ictus, e poi la morte».
Nacque così “Strolegh”, «quarantasette canti pieni di tutto, mica solo di quella passeggiata». Nacque da lì la scoperta profonda della poesia: «Era il mio essere che parlava, che ne sapeva più di me». La poesia come la mistica: «La differenza tra le due, dice Patmore, è che la prima di fronte al mistero parla, la seconda tace». La poesia come la vita: «Non bisogna cercare i significati, spiegarla, ma coglierne il ritmo, il suono, gustando fino in fondo ogni attimo del presente».
MARIA PAOLA MASALA

15/04/2010